In lingua piccolo-russa, dziga significa trottola.
Nel 1918, giunti alla fine dell’epoca zarista, la lingua piccolo-russa, così chiamata per identificarla con i suoi parlanti, gli abitanti delle regioni dell’Impero, diviene ufficialmente l’ucraino. Vertov al contrario, ha la sua radice nel verbo puramente russo vertev, roteare.
Dziga Vertov è anche il nome che scelse nel 1916 David Abelevič Kaufman, nato nella Polonia anch’essa parte della piccolo-russia, quando a Mosca conobbe il parco e le teorie del cinema futurista, veloce, ellittico, complesso ed epilettico. Come una trottola, appunto.
Il vertice della produzione di Dziga Vertov è, senza quasi ombra di dubbio, il suo Chelovek s kino-apparatom, L’uomo con la macchina da presa, del 1929. È “l’occhio del Novecento” che si apre per il regista sulla nuova metropoli dell’Est novecentesco: la città fatta di immagini, motori e suoni si squaderna prepotentemente dinanzi all’occhio ormai fattosi cine del nuovo secolo, proponendo una propria ontologicamente intrinseca drammaturgia; una sinfonia di rumori e visioni più composita e rivolta al futuro di quanto un racconto di finzione potrà mai essere. O almeno, sono queste – velocemente riassunte– le tesi che Vertov e gli altri avanguardisti del Kinoglaz (appunto, il Cineocchio) propugnano per tutto il decennio dei Venti sovietici e che trovano compimento e maturazione nella pellicola.
D’altronde, il ruotare della trottola dei ‘Twenties’ russi è ben diverso da quello ruggente di oltreoceano: sono i dieci anni che iniziano dopo la Rivoluzione d’ottobre, vedono la Grande Madre finalmente orfana dell’imperialismo e il suo freddo e bianco inverno macchiarsi di rosso, prima del sangue lasciato dalla guerra civile e poi del colore dell’Armata vincitrice nella nascente Unione Sovietica. In un decennio così inaugurato, dove la Storia stessa ha il ritmo epilettico del montaggio delle attrazioni ed esplode nei continui e repentini shock del cine-pugno, l’orchestra cinematica-visiva dell’Uomo con la macchina da presa è l’approdo di un periodo roteante come la trottola che sta nel nome del suo autore.
Eppure, anche forte di un cinema e di un nome che sono essi stessi espressione del decennio appena concluso, l’arco della trottola-Vertov inizia, con l’arrivo degli anni trenta, a traballare: per l’esplosione di un cinema e di cineasti che, figli anche della teorie sopracitate di Ėjzenštejn e dei formalisti come Viktor Šklovskij, affondano e rigenerano la nuova mitologia sovietica ancora nel grande cinema di finzione, caricato dei messaggi e delle ideologie della Federazione, ormai esauriti nella carica del documentario avanguardista dei kinoki.
C’è poi anche l’avvento del regime stalinista, al quale Vertov diviene nel tempo sempre più inviso, pur continuando comunque a lavorare e realizzare, nella chiave propagandistica dell’epoca di Stalin, opere come la grande elegia storica dei Tri pesni o Lenine (i Tre canti su Lenin del 1934).
A ben vedere però, l’incursione nel cinema di propaganda di Vertov arriva fin da prima dell’Uomo con la macchina da presa: nel 1928, ad undici anni dalla Rivoluzione d’ottobre, le teorie del Cineocchio si riversano in Odinnadchatyj (che sempre in lingua – non più – piccolo-russa, sta appunto per Undicesimo anno), realizzato per raccontare i successi ottenuti dall’altrettanto non più piccola-russia Repubblica socialista sovietica dell’Ucraina.
Il montaggio spasmodico, come il Kinoglaz promuove, «coglie la vita in flagrante», esalta e fonde le conquiste in campo agricolo, militare e soprattutto industriale della Repubblica, in una complessità di forme tale che anche il padre del montaggio delle attrazioni sottolineerà come ritmo e tempi del film erano «matematicamente così complessi da richiedere l’aiuto di un regolo calcolatore per scoprire la legge proporzionale che li governa».
Ma proprio un attimo prima che l’onda Ėjzenštejn, del cine-pugno, della drammaturgia della forma arrivi, seguita dall’orrore delle purghe, la trottola compie un ultimo grande giro affrescando nella sua rotazione gli effetti – al momento del film ancora anticipati – del primo piano quinquennale di Stalin avviato nel 1928. Si tratta della prima incursione nel sonoro di Vertov e della Ukrainfilm (e più in generale di tutta la produzione filmica sovietica), Entuziazm. Simfonija Donbassa.
Il film esce nel 1930, a due anni dall’avvio del piano e, nelle intenzioni, non è così distante dal caleidoscopio che affastella la trottola cineoticca di Odinnadchatyj, anche per lo stesso Donbass che intona la sua sinfonia del titolo, la regione ucraina interessata nel piano quinquennale dall’incremento della produzione di carbone nel suo bacino.
«Il carbone viene dalla terra. Carbone per le industrie. Carbone per le locomotive. Carbone per i forni del coke. Il carbone è arrivato. I nastri trasportatori e i setacci sono all’opera.
Le fantasmagoriche teorie di carrelli per il carbone hanno iniziato a muoversi. Gli altiforni funzionano a pieno regime. Il metallo è arrivato. I laminatoi e gli open-hearth rimbombano e fondono, laminatoi, forni – in un singolo afflato creativo verso il socialismo» annota Vertov nei suoi scritti, ancora evidentemente coinvolto dallo spirito di sviluppo socialista che i progetti di Stalin prevedono.
Il Donbass e il suo bacino cantano allora dall’occhio della macchina da presa, stavolta – e per la prima volta – davvero con i loro rumori, meccanici, insistenti, ritmati e rivolti al luminoso futuro del ferro; il matrimonio fra l’Avanguardia di Vertov e il cinema di propaganda avviene così, con gli strumenti orchestrali della futuristica Mosca divenuti quelli della Nazione intera, che si racconta attraverso una delle sue terre, in un canto e controcanto che, nell’ellissi della trottola, rimbalza dal passato arcaico e ortodosso a quello futuro dell’industrializzazione, fino all’incidenza e alla collisione dei due, negli ultimi momenti del film, racchiusa nell’immagine del treno che trasporta grano, vestigia dell’antica anima russa, che si incrocia con la locomotiva sbuffante e fumosa carica del carbone donbasso.
Campi ed industria nel montaggio entusiasta e sinfonico che si (s)forma nelle ombre proiettate sul ‘muro’ filmico dal roteare della trottola.
Una dziga vertov «meccanica, sempre in movimento» che, quasi compisse l’arco di una parabola, trova il culmine dell’Avanguardia e della propaganda, futurista e futuristica, nelle terre dalla cui lingua aveva preso il nome, prima che il perno della trottola si assesti e l’occhio si volga al passato.
- Il montaggio per attrazione e il cine-pugno sono alcune delle teorie di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn; La drammaturgia della forma è invece il nome della teoria formulata dall’Avanguardia di Ėjzenštejn e il Formalismo di Viktor Šklovskij. Nel giro di pochi anni, comunque, come per il Kinoglaz, anche il cinema di finzione avanguardistico verrà piegato alle esigenze propagandistiche della Russia stalinista.
- La citazioni sul Cineocchio, sul carbone, di Dziga Vertov sono contenute nell’edizione dei suo scritti curata da Annette Michelson, Kino-Eye: The Writings of Dziga Vertov, Berkeley/Los Angeles, California, The University of California Press, 1984 (scaricabile integralmente in pdf).
- La critica di Ėjzenštejn ad Odinnadchatiy è contenuta all’interno scheda d’archivio (v. Sotto).
Schede dei film nell’Archivio Aamod:
Vertov, Dziga, Odinnadchatiy, 1928
Entuziazm. Simfonija Donbassa, 1930
Gabriele Ragonesi 21 aprile 2022
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