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Panni sporchi, di Giuseppe Bertolucci, 1980, di Gabriele Ragonesi

Di vedetta sulla coffa nelle acque ferme del Riflusso

Nel febbraio del 1980 l’Italia navigava già a vista nel mare del Riflusso. A due anni dal sequestro e dalla morte di Aldo Moro e con il boato della stazione di Bologna a pochi mesi di distanza, la figura dell’Intellettuale impegnato è in un momento storico che, come un marinaio di vedetta sulla nave italiana, si guarda attorno, cerca di intravedere e riconoscere le antiche burrasche, o si sporge oltre la coffa sperando di poter urlare “Terra”. Ma il Riflusso è una tavola piatta, che fa ondeggiare la chiglia alla deriva, stancamente, nella noia rilassatrice e – per le vedette-intellettuali – nel disimpegno. Non a caso, personaggio simbolo dell’anno è l’ex sessantottino “Svitol” nel film di esordio di Marco Tullio Giordana, Maledetti vi amerò, che, di ritorno da cinque anni in Venezuela – non a caso, il luogo dal quale tornare è l’America meridionale, la Sierra maestra che già Ansano Giannarelli, con potere quasi profetico, aveva utilizzato come terra di paragone -, ritrova il suo Paese travolto dall’immobilismo.



Ancora più tombale e sentenziosa, l’anno prima, era stata la pietra posta dal Prato dei Taviani, dove convergevano tutte le ansie e le crisi del decennio precedente, e il conseguente sprofondamento nel disincanto di quella che era stata la generazione “giovane”. Davanti al suicidio del protagonista, interpretato da Saverio Marconi e paragonandolo a quanta speranza di rinnovamento si consumava invece nell’altro grande suicidio dei Taviani, quello del Giulio Manieri di San Michele aveva un gallo, Callisto Cosulich titolerà drammaticamente il suo articolo sul Prato: “Muore l’ultima utopia”.(1)


Dal lato istituzionale, sono praticamente vent’anni che il non ancora Divo Giulio Andreotti manifesta tutto il suo interesse per la settima arte: prima, con la missione della creazione di un Neorealismo cattolico, poi, da sotto-segretario di De Gasperi, nella rinascita e nella promozione di un cinema nazionale che riscattasse l’immagine italiana e infine, da Presidente del Consiglio, incarnazione della censura, del perbenismo e cerchiobottismo dell’Italia Democristiana applicata al cinema. Ed è nel mare del disimpegno del 1980 che la voce andreottiana trova nuova linfa per scagliarsi di nuovo contro i film del secondo dopoguerra; nel primo annus horribilis della disillusione, il Presidente attacca la stagione del Neorealismo, sulle pagine del “Popolo”(«Se nel mondo si sarà indotti erroneamente a credere che quella di Umberto D è l’Italia… De Sica avrà reso un pessimo servizio alla patria»), ma soprattutto con la celebre battuta – poi ritratta nel 1983 sì, ma forse con neanche troppa convinzione – «I panni sporchi si lavano in famiglia».(2)



Ovviamente, sulla nave ondeggiante nel brodoso mare del Riflusso, le parole di Andreotti scatenano il polverone dell’indignazione. Dopo anni in cui il Presidente tiene sempre più saldamente in alto l’asta della bandiera della censura cinematografica – una lotta, quella contro la bandiera terminata veramente solo lo scorso aprile – il giudizio che arriva rovinoso assieme alle morte delle utopie sembra risollevare la voce dell’equipaggio: sotto la produzione della Unitelefilm, Giuseppe Bertolucci, già affermato per la collaborazione alle sceneggiature dei film del fratello e soprattutto per Berlinguer ti voglio bene, gira e monta un documentario fra i marginali e gli emarginati della Stazione Centrale di Milano, intitolandolo, in polemica con l’epitaffio andreottiano, I panni sporchi.



Il documentario genera subito un vivace dibattito (e basterebbe questo, all’inizio di un decennio in cui le piazze si svuotano e le persone iniziano a ritrarsi nell’individualismo, a definire la grandiosità dell’operazione di Bertolucci) sia all’interno del Partito Comunista Italiano stesso sia fra il pubblico e la critica, che ha modo di vederlo all’interno del Festival dei Popoli, tra le rassegne più importanti di cinema documentario.
Bertolucci realizza un compendio di tutta quella schiera di figure che il decennio Ottanta del secolo scorso avrebbe presto relegato nell’ombra, donne e uomini nascosti al buio dei binari più lontani delle stazioni. Seguendo una struttura alfabetica, dividendo il film in capitoli che vanno dalla a di “Alba” alla v di “Violenza”, alcolizzati, clochard, prostitute, marchettari, tossicodipendenti, sono intervistati e ritratti dalla macchina da presa del regista, creando un coro, una sinfonia di quei panni sporchi che risuona forte, fino al di fuori della famiglia alla quale Andreotti magari avrebbe voluto consegnarli. Il loro teatro non può che essere la Stazione, il primo dei non-luoghi. Un termine che oggi è fin troppo in voga, ma che all’epoca, dove i luoghi deputati all’analisi antropologica e sociale pensavamo – e speravamo – potessero ancora essere le strade e le piazze, non aveva ancora quasi avuto dignità di parola. Soprattutto, la Stazione di Milano, una città che non faceva sicuramente parte delle conoscenze più dirette della topografia “bertolucciana”: lui, parmense trapiantato a Roma, legato sia alla provincia emiliana che alla campagna pratese con Berlinguer, sceglie invece il capoluogo lombardo come terra della sua sonata dei nuovi bassifondi. La metropoli che era stata del boom, sulla quale si erano stese le Mani di Lizzani, che aveva eretto il Pirellone, sarebbe stata di lì a poco la patria del glam, delle discoteche, dei paninari e di tutto l’edonismo che stava arrivando da oltreoceano.



Bertolucci, però, non è solo un autore della Unitelefilm. È anche uno degli intellettuali che sta su, sopra la coffa, che si sporge a scandagliare con sguardo indagatore le acque. E dalla sua postazione di vedetta, forse comprende che il tempo dello studio sociale, dell’analisi scientifica del popolo che il Marxismo aveva sempre esatto e che fino a quel punto era stata in larga parte la linea del Partito, sono finiti: gli emarginati dei panni sporchi, così come ritratti dal documentario, vanno sì a costituirsi in una classe sociale, ma non attraverso la lente dell’intellettuale/scienziato comunista, quanto più con quella del documentarista sempre teso allo sforzo di rompere la tensione, generata dall’obbiettivo, fra lui e il soggetto ripreso, a favore dell’empatia e dell’identificazione, che solo un rinnovato amore per il popolo può dare. Nei Panni sporchi c’è il tentativo non solo di ritrarre l’emarginazione, ma la consapevolezza che quelli emarginati saranno presto i dimenticati, lasciati a mollo da una nave che ha perso la rotta, ha mollato il timone e si è abbandonata dalla corrente.
I volti che si alternano dietro la macchina da presa, da quelli che appaiono per pochi minuti fino ai più ricorrenti nel film, sono i brandelli lasciati dalla stagione del piombo, dagli “Anni di diamante” (la felice definizione e di nuovo dei Taviani)(3) ora arrugginiti, e come tali Bertolucci non si raccontarne semplicemente la condizione, con il rischio di sconfinare nel pietismo, ma discute con loro di amore, di morte, di Dio, di vita (in questo senso è impressionante, tra gli altri, la figura del clochard Andrea, in schermo per pochi minuti avvolto in una candida sciarpa bianca mentre stringe tra le mani una rosa rossa, il cui racconto sconfina nei toni del romanzo verista, rievoca – anche negli eventi – quello di un Marmeladov dostojievskiano), li ritrae, con sensibilità e pudore nei loro momenti intimi, sotto le docce sporche dei bagni pubblici o abbandonati al vino nelle sale d’aspetto deserte della stazione.



Infine, il contrappunto della sinfonia dei panni sporchi che meglio inquadra ed anticipa la devastazione che l’anno zero di quel nuovo decennio sta inaugurando, si trova nella dialettica che Bertolucci instaura fra i vecchi e i giovani: al fianco delle donne di mezza età che fanno la vita, ci sono le marchette, i ragazzi maschi efebici; poi, soprattutto, c’è l’eroina. Solo più avanti, con la nostra nave di nuovo con il vento in poppa, avremmo compreso la potenza annichilente che questa ha esercitato sulla generazione del diamante. La tossicodipendenza abbraccia i più anziani e i giovanissimi: ma se per i primi Bertolucci si limita a ricordarci quanto la loro discesa verso il buio dei binari sia passata anche da lì («Ho fatto anche quello nella vita, mi son drogato! Per che cosa poi? […] quanti ricordi mi fai fare te eh? Quanti sogni!»), per i secondi è il non ritorno, il treno su cui nel decennio appena concluso si sperava di saltare e che invece si ritrova parcheggiato su di un binario morto. Ad una di loro il film consegna i suoi momenti finali.
Al racconto della ragazza eroinomane, a cui con pudore e rispetto Bertolucci non pone che pochissime domande (se non la più ovvia, ma non per questo la più semplice, di tutte «Perché non torni a casa») sono affidate le note finali della sua sinfonia. Il vuoto al quale la più giovane di tutte le persone (e non soggetti) sociali passate di fronte alla camera è consegnata, è la risposta più diretta alle parole di Andreotti, l’avviso migliore che dalla cima dell’albero maestro si possa gridare all’equipaggio, che sta giù, inebetito, lobotomizzato, cullato dalle acque immobili e stagnanti.

Gabriele Ragonesi 20/02/2022



Riferimenti
1. L’articolo di Callisto Cosulich è Muore l’ultima utopia, in “Paese Sera”, 26 agosto 1979.


2. La battuta di Giulio Andreotti è databile al 1952, relativa alla sua censura di Umberto D. Si conosce la risposta di De Sica in Lettera di Vittorio De Sica a Giulio Andreotti, in “La Repubblica”, 20 febbraio 1952.


3. La citazione è in Piero Spila, La fine delle “utopie” nel cinema dei Taviani, in Lino Miccichè (a cura di), Il cinema del riflusso. Film e cineasti italiani degli anni ’70, Marsilio, Venezia 1997, p.162.


Panni sporchi

di Giuseppe Bertolucci (Italia, 1980)

scheda film sul catalogo AAMOD

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