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Uomo di marmo e di mare. Ansano Giannarelli nel ricordo di chi non lo ha conosciuto, di Gabriele Ragonesi

Una premessa

Chi scrive, Ansano Giannarelli non lo ha conosciuto. Non ha conosciuto, con rammarico, prima di tutto l’uomo, per ragioni semplicemente anagrafiche. Del regista, ha conosciuto per molto tempo solo l’autore del suo film, forse più famoso, il Sierra maestra [1969] che, in anticipo di anni elaborava quella riflessione politica e intellettuale che avrebbe attraversato il cinema italiano solo molti anni dopo, una volta spenti gli astratti furori degli anni di piombo.

Ansano Giannarelli in Venezuela, durante le riprese del film Sierra Maestra. Un momento di pausa, 1969

Poi, è arrivato – e sta arrivando – pian piano, la conoscenza di tutto il resto: il cinema documentaristico, d’inchiesta, del reale, il ricordo dell’uomo Ansano. Per questi motivi, proprio mentre queste righe sono scritte, si delinea il profilo di un uomo trascinato nell’impegno; quello propriamente detto, l’impegno politico, ma anche la tenacia, l’urgenza di dire, riflettere, studiare.

Ansano Giannarelli e Jesus Guedez all’aeroporto di Caracas, in Venezuela, 1969

Ansano sembra spesso essere un regista in lotta contro il tempo, come il suo Evariste Galois che, si rende conto, di non averne più, l’ultima notte prima del duello fatale, mentre continua febbricitante a lavorare al suo teorema. Al di là del paragone pedissequo con il suo personaggio, che certo si potrebbe anche fare (precoci ed avanguardistici teorizzatori non compresi dall’Accademia, rivoluzionari appassionati del sogno di una cosa), ma che sarebbe, in fondo, piuttosto semplificativo nei riguardi di entrambi, l’impegno di Giannarelli sembra però ardere dello stesso tipo di bollore, quello dei grandi (e qui si conceda invece la definizione ampia): lo stesso che attraversa Gramsci, quando scrive, in una delle sue ultime lettere, che studierebbe una lezione di cinese nell’ultima notte prima della fine[1], o Michelangelo che, nascosto nelle segrete della basilica di San Lorenzo, si fa portare carta e carboncino per non interrompere il lavoro.

Ansano Giannarelli sul set di Non ho tempo

Pur non sentendomi di confermare se Ansano abbia lavorato fino alla fine – personalmente, penso proprio di sì, ma questa premessa serve proprio a rifuggire divinazioni non richieste -, voglio invece scomodare di nuovo Non ho tempo [1973] e i suoi diari e scritti di lavorazione al film:[2] più che la lotta sopracitata, la produzione di questa massiccia opera progettuale-biografica è una vera e propria corsa contro quel tempo che mancò a Galois: contro le scadenze di tempo e di budget imposte dalla Rai, contro la difficoltà nel ricostruire la biografia di un uomo a tutt’oggi semisconosciuto, le cui informazioni più o meno certe vengono dall’unica fonte del testo di Leopold Infeld[3], che Ansano legge e rilegge, sottolinea, violenta, studia, avvalendosi di consulenti diversi per ognuna delle suggestioni a cui la ricerca lo conduce. E nonostante questo, il non arrendersi a scegliere un’unica via, il riflettere fino all’ultimo giorno di riprese sull’indagine da seguire (Evariste il rivoluzionario, il matematico antiaccademico, l’eroe romantico, l’eroe politico), fino a farle confluire tutte nella pellicola, in una massiccia operazione di film progettuale, che propone tesi, avanza ipotesi, non abbandona la sintesi della finzione, ma lascia le eventuali risposte rarefarsi nei teatri di posa.

Fotogramma del film Non ho tempo

Nel caso di Non ho tempo la corsa viene vinta, in altri, pare, no. Dalla lotta invece, per come (non) lo conosce chi scrive, Ansano Giannarelli sembra non uscirne mai sconfitto. Nel suo cinema, Ansano sembra essere un pioniere ad oggi ineguagliato. Un cinema il suo che, sviluppandosi nella dialettica fra finzione e documentario (quella che nell’oggi sembra essere il maggiore, se non l’unico, campo di indagine del moderno Cinema del reale) trova in essa la forma dello studio, del progetto. Dell’Appunto pasoliniano verrebbe quasi da dire, ma probabilmente sarebbe un errore.

Ansano Giannarelli

In ogni studio di Ansano si manifestano i suoi molti tipi di impegno. Dove oggi l’interrogazione dei due campi d’indagine si pone quasi allo scopo ultimo, nel suo lavoro stava all’effetto primo. Un ribaltamento, questo, talmente denso di suggestioni da dare, a chi come in questo caso non lo ha conosciuto e desidera comunque ricordarlo, spazio ulteriore oltre la semplice premessa.

Uomo di marmo e di mare

Una premessa necessaria ad offrire, oltre che una banale captatio benevolentiae, tutti gli spunti di un ricordo da parte di chi può rammentarlo, forse anche immaginarlo, solo attraverso la sua opera. Necessaria quindi a comprendere perché tutti questi spunti si voglia ricordarli attraverso un film probabilmente minore di Ansano: Versilia. Gente di marmo e di mare [1980].

Anzi, si inceppa nel primo di essi, già nell’apostrofarlo “Film”: è il regista stesso a definirlo a più riprese “Studio” ed è lo stesso sottotitolo a chiarificare: inchiesta di (per) la televisione. Un prodotto sì televisivo, ma che in quel “per” contiene quella visionarietà e costante ricerca emersa nella premessa: Ansano non pare desiderare tanto un film fatto e finito, quanto un prodotto che offra argomentazioni di ricerca, lanci idee, attraverso l’interrogativo sulle caratteristiche di un medium, quello televisivo, che è potenzialmente capace – e nel 1980 del nuovo boom della  Tv Giannarelli dimostra di averlo compreso benissimo – di accogliere l’inchiesta con forme diverse e sconosciute.

Così il film getta spunti e squarci sul territorio a cui Giannarelli è legato per ragioni biografiche: a Viareggio, una delle due città più grandi della Versilia, Giannarelli ci è nato, se n’è andato e poi ci è tornato di nuovo. E di quei luoghi vuole sì raccontare il lavoro della gente di marmo e di mare con il taglio del documentarista, ma, in quanto lui stesso uomo di marmo -e  davvero, la sua, è una figura che in schermo appare talmente granitica da non poter non giocare sulla metafora – e di mare – idem, come sopra – di quelle terre coglie le contraddizioni: quella storica, contenuta nell’eccidio di Stazzema, quella politica, delle diverse correnti partitiche che attraversano la costa e che cambiano in quegli anni, aprendo tutto il territorio alla scenografia del conflitto generazionale. Ma, anticonforme tra gli anticonformisti, come il “vecchio” Galois, alla più grande di queste contraddizioni, Ansano non presta programmaticamente orecchio: negli anni in cui molti intellettuali rileggono le coste invase dal turismo di massa dell’imminente Riflusso, mentre De André rilancia in musica la problematizzazione di Rimini e dalla Riviera, dopo il cinema di Fellini e Zurlini e Tondelli, ne metterà il punto finale con il romanzo del 1985 dei villeggianti della Versilia, il film decide programmaticamente di non parlare, è più semplicemente il Fuori Campo alla domanda che muove lo “studio”: Cos’è la Versilia?

La Versilia sono le cave di marmo e la pesca, gli eccidi nazifascisti e i movimenti partitici; sono storie d’amore provinciali e perciò ancora patetiche e reali, salve dall’inurbamento. Tutto questo, e non il turismo; sono la materia drammaturgica di un territorio, ed è tutto questo che può essere messo in scena da microepisodi sceneggiati, pienamente inseriti nel cinema di contaminazione e dialogo germinato dai grandi Sierra maestra e Non ho tempo. Conversazione che, anche in quest’operazione meno ambiziosa, non smette di aggiungere sfumature, affidando gli stralci di finzione agli attori amatoriali della Teatroupe, compagnia versiliese dell’attrice e regista Alfia Meliani.

            Potrebbe continuare la lista del territorio incredibilmente fertile che questo studio di e per sulla Versilia offre, contribuendo a sottolineare tutte le caratteristiche degne e fondamentali in un ricordo di Ansano: l’autoironia dell’intellettuale («anonimo nell’aspetto e noioso nel comportamento, come per qualcuno sono noiosi i miei film») e insieme la caparbiertà e l’impegno di un cineasta che nella depoliticizzazione degli anni Ottanta non rinuncia a dichiarare tranquillamente alla camera la fede politica comunista; la forza innovatrice di produzioni che in Tv (anche in questo caso, come per Non ho tempo, il progetto è prodotto dalla Reiac film per la rete Rai) non hanno ancora visto successori; il pensiero che nel vederlo lì, in piedi tra gli scavi marmorei o la sabbia grigia e gli stabilimenti chiusi della costa fuori campo e fuori stagione, manca davvero anche a chi non lo ha conosciuto.

Gabriele Ragonesi,  10/06/2022


[1] «Il mio stato d’animo è tale che se anche fossi condannato a morte, continuerei a essere tranquillo e anche la sera prima dell’esecuzione magari studierei una lezione di lingua cinese». Antonio Gramsci, Lettera dal carcere del 19 dicembre 1929.

[2] Leopold Infeld, Tredici ore per l’immortalità: la vita del matematico Galois, Feltrinelli Editore, Milano 1957.

[3]  I materiali delle fasi ideative, di progettazione creativa, produttiva, riprese, edizione, montaggio e diffusione del film sono conservati nel Fondo Reiac (carte), Serie Non ho tempo composta dai faldoni datati 1969-1989 dal’Archivio Aamod – Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico.

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