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Cinema Grattacielo

di Marco Bertozzi, 2017

Note di regia


Da quasi vent’anni abito al grattacielo di Rimini e quasi subito ho pensato di farci un film. Le prime immagini le ho girate durante il trasloco, sequenze di pochi minuti alle quali si sono aggiunte riprese d’incontri amicali e riunioni condominiali, guasti degli ascensori e (piccoli) terremoti, feste negli appartamenti e tramonti spettacolari… Anche le tempeste si vedono e si sentono bene, a cominciare dagli squarci di lampi sul mare, all’orizzonte. Una cavalcata di nero pece e bianco abbagliante, con nuvole galoppanti, sabbia volante e vento che sibila forte, sino a fare tremare gli infissi e creare paurosi risucchi d’aria. Nel piazzale del grattacielo quasi non si riesce a camminare, le insegne barcollano, tutto sembra potersi involare in cielo.  

Perché quello che non si pensa mai è che abitando in un grattacielo ci si affaccia a un cinema naturale, sempre acceso, in panavision, quello dello spazio aperto, quasi infinito, davanti a se. E che, all’opposto, per chi è fuori il mistero sta nel groviglio miracoloso degli interni, nel formicolio delle genti che lo abitano.  Forse per questo, sin da piccolo, avrei voluto entrare in tutti gli appartamenti, conoscerne gli abitanti, vedere i giocattoli degli altri bambini, i balconcini, gli specchi. Dormirci per svegliarmi alla luce della notte e a quella del mattino, sentire il rumore del treno e degli ascensori. Per me il grattacielo era un albero della cuccagna irraggiungibile, il condensatore energetico di Rimini città luna-park, la mitica astronave di un luogo che sembrava promettere una vacanza perenne.

Oggi penso che crescere a Rimini in quegli anni sia stata un’esperienza tragica ed esaltante, qualcosa che sembrava esaudire il desiderio di una favola molto terrena.   Erano anni in cui si profetizzava un grattacielo per ogni città della costa e a Rimini, capitale europea della vacanza, si parlava addirittura di una «città di grattacieli». Una felice frenesia confermata dalle immagini di tanti home movies: con gli operai che salutano dall’alto del tetto del grattacielo appena terminato o i piper con la coda, quelli che passavano per fare la reclame dei prodotti moderni, e invertivano la rotta proprio lì, sul tetto del gigante. 



Foto di Chico De Luigi

Eppure quella felicità, quella fiducia cieca nel futuro, quella sterminata voglia di vivere nasceva dalle violente ferite della guerra. Una esuberante voglia di vivere aveva origine da una tragedia sterminata, quasi 400 bombardamenti, una delle città più distrutte dalla seconda guerra mondiale… Una ferita profonda, che forse non si è mai davvero rimarginata e che ha portato a distruggere anche ciò che ancora intatto viveva (come l’antico Kursaal). Ecco, su quella ferita, dove le bombe si erano più accanite, Veniero Accreman, l’allora sindaco del PCI, decise l’impresa impossibile: una grande sfida alla città distrutta, far nascere un grattacielo laddove c’erano stati solo crateri, morti, distruzione.

Non so se esiste un legame metaforico fra la fondazione del nostro grattacielo e l’Italia moderna, quella uscita distrutta dalla guerra e arrivata a credersi un paese moderno, la sesta, la quinta potenza mondiale. So che il grattacielo nasceva nello stesso anno de La dolce vita di Fellini e che in quegli anni sembrava esserci una speranza folle, quasi sfacciata, per tutti: quella condizione che ti prende la testa, l’ebbrezza del vivere alto, staccati da terra, e che negli stessi anni portava l’Italia, e gli italiani, a pensare di essere diventati modernissimi. Come se questo gigante, con la galassia dei suoi “fortunati” abitanti, simboleggiasse un’onda emotiva ben più vasta.




Il grattacielo in costruzione – foto collezione famiglia Corbelli

Ma quella torre da «nuovo mondo» – alta 100 metri, progettata dall’architetto istriano Raoul Puhali quale icona di una fiduciosa modernità – cosa stava diventando con il passare degli anni? Mentre Rimini si faceva laboratorio internazionale della pop culture legata alla vacanza di massa, il suo grattacielo razionalista rischiava di non riuscire a fare più i conti con una storia sempre più ibrida, nella ridefinizione antropologica a cui la città, e l’Italia, andavano incontro.

Qualche anno fa, per i cinquant’anni del grattacielo, abbiamo organizzato una grande festa. C’erano mille persone a vedere l’esposizione dei progetti originali; ad ascoltare gli abitanti-musicisti riuniti nella Skyscraper Orchestra; a mirare gli home movies dei Sessanta, accompagnati da cibi dal mondo; a orecchiare le memorie di cittadini che hanno dovuto, volenti o nolenti, farci i conti. Era venuto anche l’ex sindaco Veniero Accreman, ora scomparso, a ricordarci il momento della sua nascita: un “compromesso-storico-edilizio” che avrebbe dato lavoro a centinaia di famiglie per tre anni, una specie di Ina-casa volante, rivolta all’insù, verso l’Europa. Un momento di festa importante fra pezzi di memoria resistente, un presente in mutazione vertiginosa, il futuro di una città che vuole essere ancora viva e pulsante.

Oggi una umanità eterogenea vive al grattacielo: l’ultimo censimento dice che siamo 17 nazionalità differenti ma nessuno sa davvero in quanti ci abitiamo. E negli ultimi anni sono arrivati giovani precari cognitivi – grafici, montatori, musicisti, filmmaker… – e molte coppie con figli, senza spendere quella montagna di denaro che un indecente mercato immobiliare richiede per godere di una piccola casa. Qui gli appartamenti costano la metà rispetto ai dintorni e sei sempre vicino alla stazione e al porto canale, al Tempio Malatestiano e al Grand Hotel felliniano. Così il grattacielo costruisce un immaginario sociale denso di echi, e quel reticolo di lingue che aleggia nei pianerottoli ricorda sempre più l’esperienza di Babele, segnandone di volta in volta un’idea di rifiuto o esaltazione, condanna o curiosità, vergogna o visionaria leggerezza. Un grattacielo alla frontiera dei continenti, un grattacielo volante e colorato, un grattacielo hippie, indie, magicamente ibrido. Nei suoi corridoi transitano i popoli dell’Italia contemporanea, capaci, grazie a nuove forme di solidarietà, di resistere alla crisi e alla solitudine, imposte dalla pandemia: una cosa mai vista prima e che ci obbliga a guardarci meglio, dentro, possibilmente senza esotismo. 



Il grattacielo in costruzione – foto collezione famiglia Corbelli

Non è facile valicare la rappresentazione della buccia del mondo. Non credo alle sirene di un facile realismo e penso sia importante colpire al cuore la realtà per offrirla nei suoi punti più problematici e nascosti: comporre ricognizioni dell’invisibile, in equilibrio fra esigenze contrapposte, fra documentarietà e invenzione, testimonianza e superamento dei limiti del percepibile. D’altronde il senso del fare documentari è proprio non sapere cosa succederà. Non volere che la tua opera scaturisca soltanto da una idea predefinita. La bellezza di una sequenza sta spesso nell’accogliere ciò che si manifesta durante, dopo, intorno ciò che avevi previsto. Un cinema in grado d’insinuarsi fra spazi ed esperienze non protette. Un «cinema performance», in cui alcune dimensioni sotterranee possano emergere quali tracce di un racconto inatteso.

Ecco la possibilità di giocare con la forma, con le opportunità drammaturgiche offerte dal reenactment, dai contributi in animazione di Alessia Travaglini, dal montaggio – fondamentale il lavoro con Ilaria Fraioli, con la quale ho passato alcuni mesi a “scavare”, non solo in termini iconografici, nei sotterranei labirinti dell’idea di abitare.   Sino a immaginarsi una doppia riflessione autobiografica, nel dialogo fra il regista/abitante e il grattacielo in persona, cui dà voce lo scrittore Ermanno Cavazzoni.  Una architettura che parla, che ci racconta come sta, i suoi malesseri, i suoi desideri, il rapporto con la comunità che lo abita: «Guardate qui, vi sembro normale? No, davvero… perché io mi sento un figlio venuto male… dai… insomma… uno strampalato, tirato su a ceffoni e tondini in ferro, grida e cavi elettrici, fulmini e vapori di cemento. Mi vedete? In una città con case bassine, tre piani al massimo, tutti mi guardano sospettosi e io non posso nascondermi, non posso girarmi da un’altra parte. Sono ossessionato, mi vedono dappertutto, non posso nascondermi».

Marco Bertozzi


Soggetto e regia Marco Bertozzi
Montaggio Ilaria Fraioli
Musiche Giorgio Fabbri Casadei (con la partecipazione speciale dei Ranzgen)
Animazioni Alessia Travaglini
Immagini Marco Bertozzi con il contributo di Simone Felici, Davide Montecchi, Massimo Salvucci, Francesco Scarpa
Voce del grattacielo Ermanno Cavazzoni
Missaggio suono Clovis Gouaillier
Fotografie Chico De Luigi, Claudio Cardelli e Massimo Salvucci
Produttore delegato Luca Ricciardi
Coordinamento produttivo e comunicazione Anna Gradara
Web-designer Raffaella Vaccari
Titoli in animazione Leonardo Sonnoli e Irene Bacchi
Grafica manifesto Stefano Tonti
Color correction Mauro Vicentini
una produzione Associazione Condominium – Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico – Altreforme.

Con la viva partecipazione delle donne e degli uomini del grattacielo.


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